Intercultura: Gianvito Montemurro in India

Un anno in India

Il cambiamento è un dovere biologico. Il cambiamento è movimento, movimento che parte dalla testa e attraversa la spina dorsale, il cambiamento è rischio, se ci fermassimo saremmo investiti da una serie di eventi, da una serie di altri cambiamenti, movimenti di altre persone. È per questo che io, Gianvito Montemurro, studente del Liceo Classico Duni, ho deciso di voler cambiar tutto, per scoprire chi sono o per diventare ciò che vorrei essere.
Sono cambiato? Non lo so. Mi sono mosso? Sì.
Durante il mio secondo/terzo anno di Liceo ho capito di aver sbagliato alcune cose, troppe aspettative, troppa voglia di cambiamento, ma poco coraggio di attuarlo. Così ho preso una decisione, ho voluto prendermi le responsabilità delle mie scelte, sbagliate o giuste che fossero, perché diciamo che per capire chi si vuol diventare bisogna capire chi si è.
Il resoconto è che la maggior parte delle cose da me non gradite che mi son capitate, ho fatto io in modo che capitassero.
Mi ero stufato, mi ero stufato di tutto, di tutti, avevo bisogno di sbrinarmi e di fare un passo che fosse più lungo della mia gamba.
In effetti l’ho fatto. La mia gamba misura circa 95 cm e io ho fatto un passo di 8000 km.
Alcuni cambiamenti sono così veloci che non si accorgono di noi e il 4 luglio arrivò più in fretta del previsto e io non avevo ancora razionalizzato il fatto che stessi per rinascere, stessi per scrivere non una pagina, ma un nuovo libro da introdurre nell’enciclopedia della mia vita.
Un libro breve, come la mia permanenza nel paese dei colori e degli odori, ma un libro intenso. Un romanzo? Un giallo? Un libro d’avventura? L’autore non riesce a definirlo per ora, e anche se lo facesse, non ve lo direbbe. È un libro con il lucchetto e la chiave è in fondo al Gange.
Fatto sta che l’adrenalina e l’eccitazione il giorno della partenza offuscavano il sentimento forte di paura che era presente e che bramava attenzioni. Durante le ultime 8 ore di volo da Helsinki a Delhi, una ragazza del nostro gruppo che sedeva accanto a me, interruppe la mia spiegazione del gioco di carte “Scopa” (che poi, come diavolo si fa a non sapere come si gioca a scopa?!), mi guardò e mi disse: “io non sono pronta, voglio scendere”.
Non scese dall’aereo e non scesi neanch’io. L’unica cosa che scese fu una sensazione di smarrimento che si palesò davanti ai miei occhi, mentre avevo il Settebello in mano. Io ero pronto? Si. No. Non lo so. Ma ormai è fatta.
Scacciai con tutto me stesso quell’orrenda sensazione e con spavalderia e fintissimo coraggio gracchiai una risata molto poco convinta. Fu un volo calmo, le uniche turbolenze erano quelle della mia mente che cominciavano a farsi centinaia di domande, le cui risposte ripiegavano solo su una considerazione: l’India è bella, andrà tutto bene.
Terminato questo preludio il cui unico intento era quello di portarvi a conoscenza delle mie emozioni “pre-permanenza”, non vi tedierò con un’uggiosa cronaca degli avvenimenti che mi sono capitati bensì vi parlerò delle emozioni vissute durante la mia permanenza senza entrare nello specifico e senza minuziosi dettagli, in modo che possiate completare con la vostra immaginazione le mie sommarie descrizioni.
L’India è un Paese dalle mille sfaccettature, ma la cosa che maggiormente mi segnò appena arrivato fu il perpetuo e incessante alternarsi di un colore caldo con i colori freddi. Il colore caldo, che è un’interrotta pennellata che accompagna le pupille in ogni dove, è il marrone. Tutto è marrone qui in India. Le strade sono marroni, la terra è marrone, le persone sono marroni, le mucche sono marroni, a volte anche il cielo par essere marrone. È un marrone triste, il marrone della povertà.
E, come l’ultimo sofferto respiro di una terra con il cappio al collo, a volte ci sono degli sprazzi di colori allegri, come il viola, il fucsia, il verde, tanto vivaci che pare vogliano cambiare la situazione atroce di questo Paese, ma troppo deboli per districarsi dalla morsa della povertà.
Le donne, anche le più povere, sono avvolte in magici veli dai colori speranzosi, a guardarle sembra che il cuore inizi una danza con il loro sguardo fisso, triste, capace solo di chiedere e impossibilitato nel donare qualsivoglia emozione o bene materiale. Queste donne-arcobaleno si avvicinano, toccano e trasmettono la loro maledizione, la maledizione di vivere in un paese che non può permettersi il sostentamento di tutti i suoi abitanti. Non si può far altro che assecondare la loro richiesta: qualche rupia per mangiare, per far mangiare la numerosa prole e per resistere qualche altra ora al cancro della fame.
Tutto questo mi lasciò di stucco inizialmente, perché più scoprivo l’India, più scoprivo le contraddizioni che la società della casta impone. Una società che dice che i poveri sono sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi.
É triste da ammettere, ma dopo i primi due mesi non ci si stupisce più, non ci si domanda più se è giusto che quella gente sia condannata a una vita all’insegna della fame.
Egoismo? No. Semplice accettazione della realtà. E vi assicuro che non c’è nulla da fare.
Personalmente, mi son trovato a dover valicare ostacoli che mai, prima di partire, avrei immaginato di trovare nella mia strada. Vivo in una casa piccolina, con due stanze, una cucina e un bagno all’esterno e sul tetto c’è una piccola casetta, come una mansarda, dotata di una stanza e un bagno. In famiglia siamo 8: io, i miei genitori Indiani, un fratello, una sorella, una nonna, un nonno e il suo badante.
Nel periodo iniziale c’era addirittura una zia, che però non stava a casa con noi, ma viveva nella “mansarda” che ho citato precedentemente. Le due stanze della casa sono per le due coppie, mamma e papà e nonno e nonna. Mia sorella ha un letto nel corridoio e mio fratello dorme sul pavimento.
Io inizialmente dormivo sul divano, poi fortunatamente la zia se ne andò e ora sono io che vivo nella mansarda. Non vivo da solo, ho la dolce compagnia della fauna locale, da insetti di media stazza a piccoli rettili, con i quali condividiamo il letto, il bagno, i miei vestiti.. tutto. Questo non mi crea un grande problema perché ho capito che per vivere in India bisogna avere una grande capacità di adattamento nonché una grande VOGLIA di adattamento Una volta mi imbattei in una triste conversazione su un gruppo di Facebook , qualcosa come “Italiani a Bangalore”. C’era un gruppo di lavoratori che si lamentava copiosamente della scarsa igiene dell’India, del fatto che in India non si usi essere in orario, del fatto che in India regna sovrana la pigrizia e tante altre cose negative. Si davano manforte nel trovare elementi negativi e li rimarcavano con veemenza. Alla fine un indiano commentò e scrisse: l’India può dare tanto, bisogna solo imparare a ricevere.
Io ho riflettuto molto su questa frase, l’ho riletta spesso e ogni volta ha suscitato in me emozioni diverse.
Ora come ora, ad un mese dal mio ritorno, ho capito come ricevere dall’India, io ho imparato ad amare l’India, io adesso so amare questo Paese. Io l’India la amo ogni volta che vado a scuola con il rickshaw e il vento in faccia mi dà il buongiorno, io la amo ogni volta che compro le gomme da masticare a 2 centesimi, io la amo ogni volta che il venditore strabico di pannocchie mi fa l’occhiolino perché sono il suo cliente preferito nonostante una delle sue pannocchie mi abbia mandato in ospedale con un’intossicazione alimentare, io la amo ogni volta che cammino per strada e la gente mi tocca perché vogliono sapere com’è la pelle bianca, io la amo quando invece ai bambini dell’orfanotrofio non frega nulla della mia pelle bianca, preferiscono mettermi in porta e tirare i rigori, io la amo ogni volta che la gente mi ferma e mi fa le foto, io la amo ogni volta la gente mi ferma e mi chiede di fare foto a loro, io la amo ogni volta che il rickshaw driver si mette a ridere sentendomi parlare in kannada, io la amo ogni volta che il mio guru mi sgrida se durante la lezione di meditazione apro gli occhi, io la amo ogni giovedì quando migliaia di persone vengono a pregare al Tempio del Sai Baba proprio accanto a casa mia e tutta la via profuma di fiori, incenso e frutti tropicali, io la amo perché nella via di casa mia è vietato vendere carne, io la amo ogni volta che gli indiani mi chiedono se la mia famiglia naturale è mafiosa, io la amo ogni volta che la nonna lascia le pantofole sul tavolo dove c’è il cibo ma va bene così perché lei è anziana e può fare ciò che vuole, io la amo ogni volta che Ronhit, il badante-servo mi dice che sono suo fratello perché ceniamo insieme e al servo non è permesso cenare con uno della famiglia, io la amo ogni volta che arriva il tipo in bicicletta sotto casa per vendere i giornali e urla come un pazzo alle 8 del mattino, io la amo ogni volta che la gente urla contro il tipo in bicicletta che vende i giornali perché gli ha venduto un giornale del 2004, io la amo ogni volta che la cuoca della casa cambia il tè e sorride quando le dico che me ne sono accorto, io la amo ogni volta; che la gente si complimenta con me perché so mangiare con le mani proprio come un vero indiano, io la amo ogni volta che comincio a lacrimare per il cibo troppo piccante, io la amo ogni volta che vado a pregare Shiva affinché mi passi la diarrea, io la amo ogni volta che il custode del bancomat mi abbraccia perché spera che gli lasci la mancia, io la amo ogni volta che il tipo del supermercato mi dice che siccome io sono suo amico, non mi fa pagare le buste della spesa, che costano mezzo centesimo, io la amo quando la cuoca la mattina mi dà il chapati bollente e ci mette un po’ di sale anche se non si fa ma sa che a me piace il cibo salato, io la amo perché mi ha fatto incontrare uno dei miei attuali migliori amici che viene dal Ghana, io la amo ogni volta che esco di casa in pigiama e nessuno ci fa caso, io la amo ogni volta che c’è il tramonto davanti alle baracche e i bambini non possono più giocare perché vien detto loro che anche Lord Ganesh va a dormire, io la amo ogni volta che il cielo si arrabbia, diventa nero nero e scatena ettolitri di acqua e non è possibile andare da nessuna parte, io la amo ogni volta che a scuola mi insegnano le parolacce in Tamil o Hindi o Kannada perché si sa che quando si va all’estero le prime cose che si imparano sono le parolacce, io la amo ogni volta che la professoressa mi dice che sono più bravo dei miei compagni anche se so che lo dice solo per farmi felice, io la amo ogni volta che io e mio fratello usciamo alle 4 di notte per andare a bere un chai (tè) bollente a 4 centesimi, io l’ho amata quando ho fatto 45 ore di viaggio consecutive tra treno e pullman per andare al nord, io l’ho amata quando ho toccato il marmo del Taj Mahal, io l’ho amata mentre indiani perfettamente sconosciuti mi abbracciavano, mi si strusciavano e mi tiravano mille colori durante l’Holi, io la amo anche se mi ha fatto dimenticare la grammatica italiana.
Io ho amato l’India, io amo l’India e io amerò l’India, perché l’India è la parte più bella, profumata e colorata della mia vita e io amo la Vita.
Vi auguro di viaggiare, di conoscere, di ammirare, perché il Mondo è bellissimo e noi neanche lo sappiamo.

Gianvito Montemurro

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